Il 24 gennaio 2013 la Cassazione, con sentenza n. 1693, è intervenuta sulla questione legata all’individuazione dei limiti con cui il lavoratore, esercitando una forma di auto-tutela (ovvero, utilizzando una forma di difesa diretta e immediata, senza richiedere l’intervento di un giudice del lavoro), si è rifiutato di svolgere l’attività lavorativa, perché il datore di lavoro, nel corso dei mesi precedenti, gli aveva affidato mansioni progressivamente sempre più demansionanti. Nel corso del tempo, poi, il datore di lavoro aveva iniziato ad affidare al lavoratore sempre meno attività, che lo occupavano per poche decine di minuti al giorno.
Questo demansionamento e svuotamento di mansioni, che stava causando al lavoratore un malessere psico-fisico, lo determinava all’astensione dal rendere la prestazione di lavoro. Il datore di lavoro, a questo punto, gli contestava l’assenza dal posto di lavoro e lo licenziava per asserita giusta causa.
La Corte Costituzionale ha affermato in proposito che il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di svolgere la prestazione di lavoro (ad esempio in caso di adibizione a mansioni inferiori) può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall’art. 1460 c.c., sempre che il rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede”. La Suprema Corte ha altresì richiamato altro orientamento di legittimità secondo il quale il giudice, ove venga proposta dalla parte l’eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione compartiva degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, le posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora rilevi che l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l’eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte a norma dell’art. 1455 c.c., deve ritenersi che il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell’art. 1460 c.c., 2”.