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Lo smart working esclude il diritto al buono pasto

Lo smart working esclude il diritto al buono pasto. Questa, in estrema sintesi, l’interessante decisione del Tribunale di Venezia che è intervenuto su un argomento impostosi all’attenzione delle aziende con l’esplosione dello smart working cagionata dalla pandemia da Covid-19.

Il tema
Fino all’inizio del 2020, lo smart working è rimasto un istituto applicato in misura marginale nel mondo del lavoro italiano. Istituito con la L. 22 maggio 2017, n. 81, il «lavoro agile», come è definito nella legge, o smart working, come è stato subito ribattezzato dalla prassi, è infatti rimasto negletto dai più fino, appunto, all’avvento improvviso ed imprevisto della pandemia e dei conseguenti D.P.C.M. che hanno sostanzialmente imposto tale modalità di lavoro alla quasi totalità delle prestazioni idonee ad essere rese tramite computer e telefono.
Proprio tale marginalità ha procurato, nel periodo precedente alla pandemia, una rara attenzione al fenomeno dello smart working da parte degli atti istitutivi dei buoni pasto.

Il buono pasto
Come noto, infatti, l’importante leva fiscale garantita dall’art. 51, comma 2, lett. ‘c’, T.U.I.R., ha fatto si che la concessione di un buono pasto ai lavoratori subordinati sia un fenomeno largamente diffuso. Tale beneficio, oggi consentito in totale esenzione da imposte e contributi fino ad Euro 8,00, se in forma elettronica[1], è rimesso alla libertà negoziale delle parti che possono pattuirlo nel contratto individuale di lavoro, istituirlo mediante accordo collettivo aziendale o anche per via unilaterale ad opera del datore di lavoro, mediante regolamento aziendale o semplice prassi.
In tutti questi casi, resta quindi affidata alla libertà negoziale delle parti stabilire – non solo l’importo del singolo buono pasto ma anche – limiti e condizioni per la sua erogazione.
Molto spesso, infatti, l’accordo o il regolamento aziendale stabiliscono che il buono pasto spetta solamente per le giornate di effettivo lavoro (con esclusione, quindi, dei giorni di riposo, ferie, festività, ecc.); che spetta solamente quando si superi una certa durata giornaliera della prestazione (almeno sei ore); e cosi via.
Tornando al nostro tema, tuttavia, pochi hanno previsto in tempi non sospetti di condizionare il diritto al buono pasto allo svolgimento della prestazione in sede o in modalità di lavoro non agile.

Il lavoro agile
La scarna disciplina legale del lavoro agile – che demanda all’accordo tra le parti ampia libertà di determinare il contenuto del rapporto -, dal canto suo, comprende una norma che impone la parità di trattamento tra lavoratori agili e lavoratori tradizionali.

Lavoro – Lavoro subordinato – Retribuzione e benefit – Buoni pasto -Lavoro agile – Compatibilità – Esclusa
Il lavoro agile è incompatibile con la fruizione dei buoni pasto; per la maturazione del buono pasto è necessario che l’orario di lavoro sia organizzato con specifiche scadenze orarie e che il lavoratore consumi il pasto al di fuori dell’orario di servizio; quando la pressione è resa in modalità di lavoro agile, questi presupposti non sussistono, perché il lavoratore è libero di organizzare come meglio ritiene la prestazione.
Tribunale di Venezia 8 luglio 2020
Lo smart working esclude il diritto al buono pasto. Questa, in estrema sintesi, l’interessante decisione del Tribunale di Venezia che è intervenuto su un argomento impostosi all’attenzione delle aziende con l’esplosione dello smart working cagionata dalla pandemia da Covid-19.

Il tema
Fino all’inizio del 2020, lo smart working è rimasto un istituto applicato in misura marginale nel mondo del lavoro italiano. Istituito con la L. 22 maggio 2017, n. 81, il «lavoro agile», come è definito nella legge, o smart working, come è stato subito ribattezzato dalla prassi, è infatti rimasto negletto dai più fino, appunto, all’avvento improvviso ed imprevisto della pandemia e dei conseguenti D.P.C.M. che hanno sostanzialmente imposto tale modalità di lavoro alla quasi totalità delle prestazioni idonee ad essere rese tramite computer e telefono.
Proprio tale marginalità ha procurato, nel periodo precedente alla pandemia, una rara attenzione al fenomeno dello smart working da parte degli atti istitutivi dei buoni pasto.

Il buono pasto
Come noto, infatti, l’importante leva fiscale garantita dall’art. 51, comma 2, lett. ‘c’, T.U.I.R., ha fatto si che la concessione di un buono pasto ai lavoratori subordinati sia un fenomeno largamente diffuso. Tale beneficio, oggi consentito in totale esenzione da imposte e contributi fino ad Euro 8,00, se in forma elettronica[1], è rimesso alla libertà negoziale delle parti che possono pattuirlo nel contratto individuale di lavoro, istituirlo mediante accordo collettivo aziendale o anche per via unilaterale ad opera del datore di lavoro, mediante regolamento aziendale o semplice prassi.
In tutti questi casi, resta quindi affidata alla libertà negoziale delle parti stabilire – non solo l’importo del singolo buono pasto ma anche – limiti e condizioni per la sua erogazione.
Molto spesso, infatti, l’accordo o il regolamento aziendale stabiliscono che il buono pasto spetta solamente per le giornate di effettivo lavoro (con esclusione, quindi, dei giorni di riposo, ferie, festività, ecc.); che spetta solamente quando si superi una certa durata giornaliera della prestazione (almeno sei ore); e cosi via.
Tornando al nostro tema, tuttavia, pochi hanno previsto in tempi non sospetti di condizionare il diritto al buono pasto allo svolgimento della prestazione in sede o in modalità di lavoro non agile.
Il lavoro agile
La scarna disciplina legale del lavoro agile – che demanda all’accordo tra le parti ampia libertà di determinare il contenuto del rapporto -, dal canto suo, comprende una norma che impone la parità di trattamento tra lavoratori agili e lavoratori tradizionali.
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Recita infatti, l’art. 20, L. n. 81/2017:

  1. Il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda. […]
    La questione giuridica
    Si è quindi posto da più parti il dubbio, in questi mesi, se il datore di lavoro possa validamente rifiutare il pagamento del buono pasto ai lavoratori che rendano la loro prestazione in regime di smart working.
    Il problema non sembra porsi nei casi in cui l’atto istitutivo abbia regolato espressamente l’ipotesi, escludendo il diritto al buono nei giorni di prestazione in modalità agile. Forti dubbi sono viceversa sorti in tutti quei casi in cui le condizioni fissate dall’atto istitutivo fossero limitate al solo dato della durata della prestazione effettiva di lavoro: circostanze queste che chiaramente si verificano anche nel caso in cui il lavoratore renda la prestazione da casa.
    Il caso esaminato
    In questo scenario si innesta pertanto la decisione del Tribunale di Venezia, resa a chiusura di un procedimento ex art. 28, Statuto dei Lavoratori per condotta antisindacale. Il sindacato ricorrente si era rivolto al Tribunale per chiedere la condanna del Comune di Venezia per avere questo escluso dal godimento dei buoni pasto i lavoratori collocati unilateralmente in smart working dal Comune, nell’ambito dei provvedimenti anti-Covid-19.
    Ad avviso della locale CGIL Funzione pubblica, tale decisione violava i diritti dei lavoratori e le prerogative sindacali poiché il Comune aveva deciso senza dar luogo ad alcuna consultazione.
    Va detto che la decisione trova occasione in un contesto peculiare: quello del lavoro pubblico, del CCNL Enti locali e delle disposizioni anti-Covid-19. Tuttavia, le ragioni esposte dal Tribunale si prestano ad assumere portata generale, anche nell’ambito del lavoro privato e con qualunque CCNL.
    La decisione del Tribunale di Venezia
    Netta è infatti l’affermazione con cui il Tribunale apre la motivazione sul punto:
    «Il lavoro agile è incompatibile con la fruizione dei buoni pasto».
    Nel caso esaminato, si noti, il CCNL prevede che l’attribuzione del buono pasto sia legata alla sola condizione di una certa articolazione della prestazione giornaliera[2]. Ad avviso del Tribunale, tuttavia, il fatto che l’orario di lavoro sia organizzato con specifiche scadenze orarie e che il lavoratore consumi il pasto al di fuori dell’orario di servizio costituisce requisito fondante e generale per la maturazione del diritto al buono pasto.
    Quando la prestazione è resa in modalità di lavoro agile, prosegue infatti la motivazione, questi presupposti non sussistono proprio perché il lavoratore è libero di organizzare come meglio ritiene la prestazione sotto il profilo della collocazione temporale.
    In altri termini, pertanto, presupposto del diritto al buono pasto è che la modalità organizzativa del lavoro sia tale da imporre al lavoratore una certa cadenza temporale della prestazione e della pausa, anche se ciò non sia reso esplicito dall’accordo che lo istituisce.
    Ma come valutare l’obbligo di pari trattamento tra lavoro agile e lavoro tradizionale, imposto dall’art. 20, L. n. 81/2017? Il Tribunale affronta anche questo aspetto del problema
  2. Il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda. […]
    La questione giuridica
    Si è quindi posto da più parti il dubbio, in questi mesi, se il datore di lavoro possa validamente rifiutare il pagamento del buono pasto ai lavoratori che rendano la loro prestazione in regime di smart working.
    Il problema non sembra porsi nei casi in cui l’atto istitutivo abbia regolato espressamente l’ipotesi, escludendo il diritto al buono nei giorni di prestazione in modalità agile. Forti dubbi sono viceversa sorti in tutti quei casi in cui le condizioni fissate dall’atto istitutivo fossero limitate al solo dato della durata della prestazione effettiva di lavoro: circostanze queste che chiaramente si verificano anche nel caso in cui il lavoratore renda la prestazione da casa.
    Il caso esaminato
    In questo scenario si innesta pertanto la decisione del Tribunale di Venezia, resa a chiusura di un procedimento ex art. 28, Statuto dei Lavoratori per condotta antisindacale. Il sindacato ricorrente si era rivolto al Tribunale per chiedere la condanna del Comune di Venezia per avere questo escluso dal godimento dei buoni pasto i lavoratori collocati unilateralmente in smart working dal Comune, nell’ambito dei provvedimenti anti-Covid-19.
    Ad avviso della locale CGIL Funzione pubblica, tale decisione violava i diritti dei lavoratori e le prerogative sindacali poiché il Comune aveva deciso senza dar luogo ad alcuna consultazione.
    Va detto che la decisione trova occasione in un contesto peculiare: quello del lavoro pubblico, del CCNL Enti locali e delle disposizioni anti-Covid-19. Tuttavia, le ragioni esposte dal Tribunale si prestano ad assumere portata generale, anche nell’ambito del lavoro privato e con qualunque CCNL.
    La decisione del Tribunale di Venezia
    Netta è infatti l’affermazione con cui il Tribunale apre la motivazione sul punto:
    «Il lavoro agile è incompatibile con la fruizione dei buoni pasto».
    Nel caso esaminato, si noti, il CCNL prevede che l’attribuzione del buono pasto sia legata alla sola condizione di una certa articolazione della prestazione giornaliera[2]. Ad avviso del Tribunale, tuttavia, il fatto che l’orario di lavoro sia organizzato con specifiche scadenze orarie e che il lavoratore consumi il pasto al di fuori dell’orario di servizio costituisce requisito fondante e generale per la maturazione del diritto al buono pasto.
    Quando la prestazione è resa in modalità di lavoro agile, prosegue infatti la motivazione, questi presupposti non sussistono proprio perché il lavoratore è libero di organizzare come meglio ritiene la prestazione sotto il profilo della collocazione temporale.
    In altri termini, pertanto, presupposto del diritto al buono pasto è che la modalità organizzativa del lavoro sia tale da imporre al lavoratore una certa cadenza temporale della prestazione e della pausa, anche se ciò non sia reso esplicito dall’accordo che lo istituisce.
    Ma come valutare l’obbligo di pari trattamento tra lavoro agile e lavoro tradizionale, imposto dall’art. 20, L. n. 81/2017? Il Tribunale affronta anche questo aspetto del problema.
    La norma richiamata, secondo il Giudice, va letta alla luce della natura dell’emolumento in esame. Natura su cui ha fatto luce la Suprema Corte in varie pronunce tra cui Cass. 29 novembre 2019, n. 31137. La Corte, infatti, ha chiarito che:
    «[…] il c.d. buono pasto, salva diversa disposizione, non è un elemento della retribuzione “normale” concretandosi lo stesso in una agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale[3]».
    Riprendendo le parole del Collegio, il Tribunale precisa dunque che:
    «[…] il buono pasto è un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall’Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa, nelle ipotesi in cui l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio».
    Il buono pasto, conclude pertanto il Tribunale, non costituisce un elemento della retribuzione né un trattamento comunque necessariamente conseguente alla prestazione in quanto tale. Questa è la ragione per cui si può escludere che esso rientri nel «trattamento economico e normativo» oggetto della tutela prevista dall’art. 20, L. n. 81/2017, ossia dalla parità di trattamento con i lavoratori ordinari.
    Quale corollario di tutto ciò, infine, è che, se è vero che non sussiste un diritto dei lavoratori in smart working al buono pasto, non poteva sussistere un diritto delle OO.SS. alla consultazione sindacale per rimuoverlo.
    Considerazioni conclusive
    La decisione in commento è nella sostanza condivisibile. Si potrebbe aggiungere che il buono pasto trova la propria giustificazione nel disagio – e nel costo – che il lavoratore sopporta nel dover consumare il pranzo fuori casa, in ragione del fatto che l’etero-organizzazione dei tempi di lavoro gli impone di rimanere nei pressi del luogo di lavoro, sia esso la sede abituale o il luogo nel quale il lavoratore si reca (il cantiere, gli uffici del cliente, ecc.). La stessa esenzione fiscale e contributiva dell’emolumento concorre delinearne la natura di ripianamento di un costo anziché di un corrispettivo, poiché il lavoratore si trova a doverlo sostenere (non per l’esecuzione della prestazione ma) a causa ed in occasione della stessa.
    Sarà comunque interessante verificare se l’orientamento espresso dalla decisione in commento – che, a quanto consta, è la prima sul tema – verrà confermata o sarà invece contraddetta da altri fori.
    Senza dubbio, l’autorevolezza della fonte giurisprudenziale e il tenore degli argomenti assunti, ben potranno offrire un valido sostegno a quanti, tra i datori di lavoro, decideranno di sospendere il pagamento del buono pasto ai lavoratori in smart working in attesa che il prossimo accordo o regolamento aziendale disciplini espressamente il caso

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