Secondo una pronuncia della corte di cassazione (la 29423 del 2019) l’art. 34, comma 1, d.lgs n. 276 del 2003 si limita a demandare alla contrattazione collettiva la individuazione delle «esigenze» per le quali è consentita la stipula di un contratto a prestazioni discontinue, senza riconoscere esplicitamente alle parti sociali alcun potere di interdizione in ordine alla possibilità di utilizzo di tale tipologia contrattuale; né un siffatto potere di veto può ritenersi implicato dal richiamato «rinvio» alla disciplina collettiva che concerne solo un particolare aspetto di tale nuova figura contrattuale e che nell’ottica del legislatore trova verosimilmente il proprio fondamento nella considerazione che le parti sociali, per la prossimità allo specifico settore oggetto di regolazione, sono quelle maggiormente in grado di individuare le situazioni che giustificano il ricorso a tale particolare tipologia di lavoro.
Nel caso di specie la Corte d’appello, in riforma della decisione del Tribunale, respingeva la domanda di un lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro intesa a far accertare l’illegittimità del contratto di lavoro intermittente, con conseguente conversione dello stesso in un contratto di lavoro a tempo indeterminato e condanna della società alla reintegrazione e alle connesse differenze retributive oltre al risarcimento del danno patrimoniale. La Corte territoriale, premessa la genuinità del contratto di lavoro intermittente, stipulato con riferimento alle esigenze individuate in via sostitutiva della contrattazione collettiva dal Ministero del Lavoro con il DM 459/2004, il quale faceva riferimento alla tabella allegata al r.d. n. 2657/1923, osservava che il rinnovo del contratto collettivo applicato al caso di specie non conteneva più la previsione impeditiva del ricorso alla tipologia del lavoro a chiamata adottata dalle parti. Il giudice d’appello aveva inoltre rimarcato che la interpretazione delle previsioni collettive in senso ostativo alla possibilità di stipulare il contratto avrebbe finito con il vanificare la sostanziale operatività del ricorso al lavoro intermittente e riconosciuto alle parti collettive un potere smentito dalla disciplina di legge stante la contestuale previsione dell’intervento ministeriale in caso di inerzia delle parti sociali nel regolamentare i casi in cui era consentito il ricorso a detta tipologia contrattuale.Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione denunciando «erronea interpretazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento al disposto dell’art. 34, comma 1, d.lgs n. 276 del 2003».La Corte di legittimità ha respinto il ricorso rilevando che «la tesi dell’odierno ricorrente circa il ruolo della contrattazione collettiva ed in particolare la configurabilità in capo a quest’ultima di un potere di veto in ordine alla utilizzabilità tout-court del contratto di lavoro intermittente, non trova conferma nel dato testuale e sistematico della disciplina di riferimento». In particolare ha affermato che «L’art. 34, comma 1, d.lgs n. 276 del 2003 si limita a demandare alla contrattazione collettiva la individuazione delle «esigenze» per le quali è consentita la stipula di un contratto a prestazioni discontinue, senza riconoscere esplicitamente alle parti sociali alcun potere di interdizione in ordine alla possibilità di utilizzo di tale tipologia contrattuale; né un siffatto potere di veto può ritenersi implicato dal richiamato «rinvio» alla disciplina collettiva che concerne solo un particolare aspetto di tale nuova figura contrattuale e che nell’ottica del legislatore trova verosimilmente il proprio fondamento nella considerazione che le parti sociali, per la prossimità allo specifico settore oggetto di regolazione, sono quelle maggiormente in grado di individuare le situazioni che giustificano il ricorso a tale particolare tipologia di lavoro». Per un commento si veda anche Guida al Lavoro n. 47/2019.