La fattispecie
Con ricorso ex art. 1 comma 47 L. 92/2012, la dipendente di un’azienda operante nel settore della Grande Distribuzione Organizzata impugnava il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimatole, sostenendo che il datore di lavoro avesse errato nel computo dei giorni di assenza per malattia conteggiabili ai fini del superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro.
La lavoratrice, inquadrata al IV livello del CCNL Terziario, al momento del licenziamento operava in forza di contratto part-time verticale al 57,50%, per 23 ore settimanali distribuite nelle giornate di martedì, mercoledì e sabato.
La lavoratrice lamentava di essere stata licenziata illegittimamente il ragione del mancato superamento del comporto: ciò in quanto, secondo la tesi difensiva della ricorrente, la società aveva erroneamente conteggiato come assenze per malattia tutte le giornate coperte da certificazione medica, mentre avrebbe dovuto considerare unicamente i giorni in cui la lavoratrice era tenuta da contratto a rendere la propria prestazione lavorativa (ovvero, nel caso di specie, tre giorni alla settimana), sul presupposto che queste, e solo queste, sarebbero state le “giornate lavorative concordate tra le parti” previste dall’art. 87 CCNL Terziario[1] applicato al rapporto di lavoro.
Sotto altro profilo, la ricorrente deduceva l’illegittimità del licenziamento anche per violazione dell’art. 186 del CCNL che fissa per i lavoratori con orario di lavoro full time il periodo di comporto in 180 giorni di calendario in un anno solare. Secondo la ricostruzione della lavoratrice, anche riparametrando il periodo di comporto previsto per i lavoratori a tempo pieno al suo orario di lavoro part time, il periodo di comporto non poteva considerarsi raggiunto.
La società convenuta si costituiva in giudizio, sostenendo al contrario che l’art. 87 CCNL si limitasse a individuare la durata del comporto, senza con ciò escludere le giornate non lavorate ai fini del superamento dello stesso, e che – diversamente interpretando la norma contrattuale – si sarebbe verificata una disparità di trattamento in favore del lavoratore part-time rispetto al lavoratore full-time.
Rilevava altresì la datrice di lavoro – dopo aver argomentato in ordine alla infondatezza del richiamo alla previsione collettiva dell’art. 186 in tema di comporto dei lavoratori full-time – che l’interpretazione delle previsioni contrattuali fornita dalla ricorrente si ponesse in contrasto con i criteri di interpretazione della contrattazione collettiva elaborati dalla giurisprudenza in riferimento agli artt. 1362 e c.c. e segg.
Art. 2110 c.c. – Art. 87 CCNL Terziario – Impugnativa del licenziamento per superamento del periodo di comporto – interpretazione previsione contrattuale – Legittimità del licenziamento
L’art. 87 CCNL Terziario va interpretato, in base alla corretta applicazione dei canoni disciplinati dagli artt. 1362 e ss. c.c., nel senso di includere nel periodo di comporto dei lavoratori in part-time verticale anche le giornate non lavorative che ricadono nel periodo di malattia, non potendo il lavoratore che sia stato assente dal lavoro ininterrottamente per tutto il periodo di malattia indicato dal certificato medico sottrarre al calcolo ai fini del comporto i giorni festivi o, comunque, non lavorativi.
Tali principi non possono non applicarsi anche ai lavoratori che hanno concluso contratto di lavoro part-time, trattandosi di principio generale volto a bilanciare i contrapposti interessi tra lavoratore e datore di lavoro e a stabilire analogo trattamento per lavoratori a tempo pieno e non.
Tribunale di Milano, decreto 11 giugno 2020 – Giud. Gigli
La fattispecie
Con ricorso ex art. 1 comma 47 L. 92/2012, la dipendente di un’azienda operante nel settore della Grande Distribuzione Organizzata impugnava il licenziamento per superamento del periodo di comporto intimatole, sostenendo che il datore di lavoro avesse errato nel computo dei giorni di assenza per malattia conteggiabili ai fini del superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro.
La lavoratrice, inquadrata al IV livello del CCNL Terziario, al momento del licenziamento operava in forza di contratto part-time verticale al 57,50%, per 23 ore settimanali distribuite nelle giornate di martedì, mercoledì e sabato.
La lavoratrice lamentava di essere stata licenziata illegittimamente il ragione del mancato superamento del comporto: ciò in quanto, secondo la tesi difensiva della ricorrente, la società aveva erroneamente conteggiato come assenze per malattia tutte le giornate coperte da certificazione medica, mentre avrebbe dovuto considerare unicamente i giorni in cui la lavoratrice era tenuta da contratto a rendere la propria prestazione lavorativa (ovvero, nel caso di specie, tre giorni alla settimana), sul presupposto che queste, e solo queste, sarebbero state le “giornate lavorative concordate tra le parti” previste dall’art. 87 CCNL Terziario[1] applicato al rapporto di lavoro.
Sotto altro profilo, la ricorrente deduceva l’illegittimità del licenziamento anche per violazione dell’art. 186 del CCNL che fissa per i lavoratori con orario di lavoro full time il periodo di comporto in 180 giorni di calendario in un anno solare. Secondo la ricostruzione della lavoratrice, anche riparametrando il periodo di comporto previsto per i lavoratori a tempo pieno al suo orario di lavoro part time, il periodo di comporto non poteva considerarsi raggiunto.
La società convenuta si costituiva in giudizio, sostenendo al contrario che l’art. 87 CCNL si limitasse a individuare la durata del comporto, senza con ciò escludere le giornate non lavorate ai fini del superamento dello stesso, e che – diversamente interpretando la norma contrattuale – si sarebbe verificata una disparità di trattamento in favore del lavoratore part-time rispetto al lavoratore full-time.
Rilevava altresì la datrice di lavoro – dopo aver argomentato in ordine alla infondatezza del richiamo alla previsione collettiva dell’art. 186 in tema di comporto dei lavoratori full-time – che l’interpretazione delle previsioni contrattuali fornita dalla ricorrente si ponesse in contrasto con i criteri di interpretazione della contrattazione collettiva elaborati dalla giurisprudenza in riferimento agli artt. 1362 e c.c. e segg.
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Il Tribunale di Milano, all’esito degli accertamenti documentali svolti, ritiene corretto l’operato della società nel computo del periodo di comporto a norma delle previsioni del CCNL e rigettava, pertanto, il ricorso confermando la legittimità del licenziamento intimato.
Nella propria decisione il Tribunale di Milano – dopo aver escluso l’applicabilità, alla fattispecie in esame, dell’art. 186 CCNL disciplinante il periodo di comporto per i lavoratori a tempo pieno – rileva come l’art. 87 CCNL vada interpretato, in base alla corretta applicazione dei canoni disciplinati dagli artt. 1362 e ss. c.c., nel senso di includere nel periodo di comporto dei lavoratori in part-time verticale anche le giornate non lavorative che ricadono nel periodo di malattia.
Il Tribunale di Milano richiama altresì – quanto all’inclusione o meno delle giornate non lavorate nel calcolo volto alla verifica del superamento del comporto stesso – la giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui il lavoratore che sia stato assente dal lavoro ininterrottamente per tutto il periodo di malattia indicato dal certificato medico non può sottrarre al calcolo ai fini del comporto i giorni festivi o, comunque, non lavorativi.
Tali principi, osserva l’ordinanza, «non possono non applicarsi anche ai lavoratori che hanno concluso contratto di lavoro part-time trattandosi di principio generale volto a bilanciare i contrapposti interessi tra lavoratore e datore di lavoro e a stabilire analogo trattamento per lavoratori a tempo pieno e non».
Conclude il Tribunale osservando che una diversa interpretazione della norma contrattuale determinerebbe – per il raggiungimento del periodo di comporto di un lavoratore part time verticale – un periodo superiore a quello previsto dal CCNL per i lavoratori a tempo pieno, e che ciò non sarebbe conforme ai principi di parità di trattamento tra i lavoratori assunti a tempo pieno e parziale e di necessario contemperamento degli interessi delle parti.
Periodo di comporto: tra previsioni collettive
e interpretazioni giurisprudenziali
Il licenziamento per superamento del periodo di comporto trova il suo fondamento nell’art. 2110 c.c., il quale dispone al comma 2 che nei casi di malattia per infortunio, gravidanza, ovvero puerperio, il datore di lavoro può recedere ai sensi dell’art. 2118 c.c., decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità (cd. comporto).
I contratti collettivi stabiliscono la durata del periodo di conservazione del posto di lavoro, secondo due differenti modalità: il comporto “secco” (o comporto unitario), nell’ipotesi in cui l’assenza del lavoratore si protragga per un unico periodo continuativo; il comporto “per sommatoria” (o frazionato), nel caso in cui si tratti di più assenze frazionate nel tempo[2].
Il CCNL Commercio applicato dalla convenuta prevede tipiche ipotesi di comporto per sommatoria, sia per i rapporti full time che per quelli part-time (artt. 186, 86 e 87 CCNL).
La corretta individuazione delle assenze computabili ai fini della maturazione del periodo di comporto riveste, pertanto, fondamentale rilievo rispetto alle vicende estintive del rapporto di lavoro.
Ove la disciplina contrattuale contenga esplicite previsioni sul punto, il datore di lavoro sarà tenuto ad attenersi scupolosamente alle previsioni collettive per il corretto computo delle assenze rilevanti.
In mancanza di specifiche previsioni collettive, opera il principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza della Corte di legittimità anche in recenti pronunce[3], secondo il quale occorre tener conto, ai fini del calcolo del comporto, dei giorni non lavorativi cadenti nel periodo di assenza per malattia, dovendosi presumere la continuità dell’episodio morboso
Detta “presunzione di continuità” opera, secondo il consolidato orientamento surriferito, sia per le festività ed i giorni non lavorativi che cadano nel periodo della certificazione, sia nella diversa ipotesi di certificati in sequenza di cui il primo attesti la malattia sino all’ultimo giorno lavorativo che precede il riposo domenicale (ossia fino al venerdì) ed il secondo la certifichi a partire dal primo giorno lavorativo successivo alla domenica (ovvero dal lunedì).
Si tratta di una presunzione superabile, secondo la ricostruzione della Suprema Corte, soltanto dalla dimostrazione dell’avvenuta ripresa dell’attività lavorativa, atteso che solo il ritorno in servizio rileva come causa di cessazione della sospensione del rapporto, con la conseguenza che i soli giorni che il lavoratore può legittimamente richiedere che non siano conteggiati nel periodo di comporto sono quelli successivi al suo rientro in servizio[4].
Il Tribunale di Milano, nella fattispecie che ci occupa, ha quindi confermato che l’inclusione – anche per i lavoratori part–time verticali – delle giornate non lavorate (ad es., quelle festive) nel calcolo volto alla verifica del superamento del comporto stesso, anche in forza del sopra richiamato principio di “presunzione di continuità”, con richiamo alla giurisprudenza più recente[5].
Dall’applicazione di tale principio, il Tribunale trae la conseguenza che una diversa interpretazione comporterebbe che, per raggiungere il periodo di comporto di 78 giorni, la lavoratrice con contratto part time verticale su 3 giorni impiegherebbe 26 settimane (78:3) pari a 182 giorni di assenza, periodo superiore a quello previsto dal CCNL per i lavoratori a tempo pieno (individuato in 180 giorni dall’art. 186 CCNL).
Ciò non sarebbe conforme ai principi di necessario contemperamento degli interessi delle parti e di parità di trattamento tra i lavoratori assunti a tempo pieno e parziale.
Criteri interpretativi della contrattazione collettiva
La pronuncia del Tribunale di Milano affronta anche la rilevante tematica dei criteri interpretativi delle previsioni della contrattazione collettiva.
Per meglio comprendere la motivazione resa dal Giudice meneghino, è opportuno ricordare che, come noto, per costante giurisprudenza, nell’interpretazione di un contratto collettivo «in considerazione della sua natura privatistica, vanno applicate le disposizioni dettate dagli artt. 1362 c.c. e segg.» (Cass., Sez. Lav., 7 maggio 2020, n. 8621).
Conseguentemente, è stata esclusa la possibilità di ricorrere all’applicazione analogica, «atteso che anche nel contratto collettivo le disposizioni in esso contenute conservano pur sempre la loro originaria natura contrattuale e non consentono conseguentemente il ricorso all’analogia, che è un procedimento di integrazione ermeneutica consentito, ex art. 12 preleggi, con esclusivo riferimento agli atti aventi forza o valore di legge» (Cass., Sez. Lav., n. 30420/2017).
Quanto all’interpretazione estensiva delle clausole contrattuali (che come noto, in linea generale, è consentita ai sensi dell’art. 1365 c.c., per estendere un patto relativo ad un caso ad un altro caso non espressamente contemplato dalle parti) è stato precisato che essa sia consentita solo ove risulti l’inadeguatezza per difetto (Cass., Sez. Lav., n. 31389/2019; Cass., Sez. Lav., n. 9560/2017) dell’espressione letterale adottata dalle parti rispetto alla loro volontà̀, inadeguatezza «tradottasi in un contenuto carente rispetto all’intenzione» (Cass., Sez. Lav., 7 maggio 2020, n. 8621).
Solo in presenza di una tale ipotesi, dovranno essere considerate le conseguenze normali che le parti hanno voluto con l’elencazione esemplificativa dei casi menzionati, e verificare se sia possibile ricomprendere nella clausola contrattuale ipotesi non espressamente indicate, utilizzando il criterio di ragionevolezza imposto dalla medesima norma
La Suprema Corte ha anche precisato che la suddetta verifica deve essere eseguita dall’interprete con particolare severità̀ nei contesti in cui trova applicazione il principio generale secondo cui una norma che preveda una eccezione rispetto alla regola generale deve essere interpretata restrittivamente, con il corollario «che in siffatta ipotesi l’interpretazione non può̀ estendersi oltre i casi in cui il plus di significato, che si intenda attribuire alla norma interpretata, non riduca la portata della norma costituente la regola con l’introduzione di nuove eccezioni»[6].
In applicazione di tali principi, la società convenuta aveva sostenuto che l’operazione ermeneutica della ricorrente integrasse un’interpretazione estensiva della previsione collettiva, che avrebbe travalicato i presupposti di cui all’art. 1365 c.c., non sussistendo alcuna «inadeguatezza per difetto» dell’espressione letterale della norma contrattuale, che si astiene volutamente da previsioni diverse da quelle espressamente indicate nell’art. 87 CCNL.
In relazione a tale profilo, il Tribunale di Milano ha ritenuto che l’interpretazione dell’art. 87 sarebbe risultata superflua alla luce del chiaro dettato contrattuale «il quale, nell’individuare la durata del comporto in caso di rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale o misto fa riferimento “alla metà delle giornate lavorative concordate fra le parti in un anno solare”. E, per giornate “lavorative” non possono che intendersi quelle nelle quali il lavoratore è tenuto a rendere la propria prestazione.».
Il Tribunale ha quindi reputato che una diversa interpretazione sarebbe stata contraria ai canoni disciplinati dagli artt. 1362 e ss. c.c., cui deve farsi riferimento nell’attribuire significato alle norme della contrattazione collettiva, così come declinati dalla giurisprudenza di legittimità citata.
Sempre in tema di interpretazione della contrattazione collettiva, si richiamano le decisioni della giurisprudenza di legittimità in forza delle quali è stato disposto che l’interpretazione del contratto può̀ essere sindacata in sede di legittimità̀ solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, che non può̀ dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una interpretazione del testo negoziale piuttosto che un’altra. Conseguentemente, quando sono possibili diverse interpretazioni di una clausola contrattuale, non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, far valere in sede di legittimità̀ il fatto che sia stata preferita un’altra interpretazione (Cass., Sez. Lav., n. 8264/2020; Cass., Sez. Lav., n. 11254/2018).
Il calcolo del comporto in assenza
di previsioni contrattuali
Il Tribunale di Milano ha ritenuto che la previsione di una specifica norma contrattuale (l’art. 87 CCNL) che disciplina espressamente il calcolo del periodo di comporto in caso di part time sia orizzontale sia verticale, non consentisse di ricorrere alla previsione di cui all’art. 186 CCNL, che disciplina il comporto in generale per i lavoratori a tempo pieno.
Occorre tuttavia domandarsi come si debba operare in assenza di una norma contrattuale specificamente riferita al comporto nei rapporti part-time, e con quali modalità lo stesso debba essere calcolato.
A tal proposito la giurisprudenza ha affermato che, laddove il contratto collettivo non contenga una specifica previsione sul comporto nel part-time verticale, è «necessario provvedere, pur nel rispetto del principio di non discriminazione tra lavoro a tempo parziale e quello a tempo pieno, ad applicare il rapporto di proporzionalità in relazione all’impegno lavorativo rapportato al tempo»
Da ciò consegue il potere del Giudice di «provvedere al riproporzionamento del periodo di comporto, al fine di evitare conseguenze eccessivamente onerose per il datore di lavoro» (Cass., Sez. Lav., n. 27762/2009).
In concreto dunque l’organo giudicante dovrà prendere a riferimento la norma contrattuale in tema di comporto per il tempo pieno, e – in combinato disposto con l’art. 7, comma 1, d. lgs. 81/2015 («Il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari inquadramento») – provvedere al riproporzionamento per giungere all’individuazione del periodo di comporto nel rapporto di lavoro part-time.
Nel caso di specie, laddove non vi fosse stata una specifica previsione quale quella dell’art. 87 CCNL, l’operazione di riproporzionamento avrebbe quindi dovuto prendere le mosse dall’art. 186 CCNL (il quale dispone che «Durante la malattia, il lavoratore non in prova ha diritto alla conservazione del posto per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare, trascorso il quale, perdurando la malattia, il datore di lavoro potrà procede al licenziamento») e in virtù del principio di proporzionalità, una dei possibili criteri da utilizzare sarebbe stato quello dato dalla formula: 180 (giorni di comporto) x 57,5% (percentuale di part-time) = 103,5, così individuando i giorni di assenza nell’anno solare per superare il periodo di comporto.
Il periodo di comporto: attualità dell’istituto alla luce della recente decretazione emergenziale Covid-19
Il comporto è un istituto di peculiare interesse ed attualità, anche in riferimento alla decretazione emergenziale Covid-19 che ha introdotto il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex l. 604/1966: originariamente per un periodo di 60 giorni dal 17 marzo 2020 (art. 46 del d.l. 18/2020 c.d. Decreto Cura Italia) e, attualmente, prorogato sino al 17 agosto 2020 (art. 80 del d.l. 34/2020 c.d. Decreto Rilancio).
La suddetta previsione ha portato ad interrogarsi circa la riconducibilità del licenziamento per superamento del comporto nell’alveo della disciplina limitativa in essere.
Da più parti[7] è stato segnalato che la previsione di cui all’art. 2110 c.c. di per sé non possa considerarsi sovrapponibile o riconducibile ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, quantomeno nell’accezione di cui all’art. 3 l. 604/1966.
Occorre considerare che – in base alla previsione di cui all’art. 46 d.l. 18/2020, che vieta espressamente i licenziamenti di cui all’art. 3 l. 604/1966 – perché il divieto di licenziamento possa ritenersi esteso anche ai recessi per superamento del comporto occorrerebbe ravvisare in tali licenziamenti una natura oggettiva, secondo la definizione di cui all’art. 3 della l. 604/1966 (all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, esigenze connesse all’attività produttiva), e conseguentemente sostenere un’applicazione estensiva dell’art. 46 d.l. n. 18/2020, che ricomprenda anche i suddetti licenziamenti.
Ciò premesso, parrebbe più aderente al dettato normativo un’interpretazione della disciplina dall’art. 2110 c.c. quale causa speciale di recesso, non assimilabile né al licenziamento per motivi soggettivi né a quello per motivi oggettivi; tale circostanza parrebbe trovare conferma nell’esclusione dei recessi per superamento di comporto dalle procedure previste dall’art. 7 St. Lav. per i licenziamenti disciplinari e dall’art. 7 l. 604/1966 (per gli assunti prima del 7 marzo 2015) per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
Indicativa, sul punto, la giurisprudenza di legittimità, che ha statuito che – una volta che il periodo di comporto sia trascorso – ciò risulta «condizione sufficiente a legittimare il recesso e, pertanto, non è necessaria, nel caso, la prova del giustificato motivo oggettivo, né della impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, né quella della correlativa impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse» (Cass., Sez. Lav., n. 31763/2018)